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Cibo industriale? No grazie.

In occasione della Giornata mondiale dell'alimentazione, che cade ogni anno il 16 ottobre, sembra quanto mai sensata una riflessione sull'impatto ambientale del nostro sistema alimentare. Perché? Che relazione c'è tra cibo industriale e salute umana e ambientale?

Il 16 ottobre, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO) festeggia l'anniversario della propria fondazione, risalente al 1945, Quebec City.

Dal '79, anno in cui questa ricorrenza fu ufficialmente istituita, viene affrontato ogni anno un diverso argomento inerente temi sensibili quali fame, povertà, sicurezza alimentare, nutrizione, agricoltura sostenibile, biodiversità, eccetera.

Lo scopo della Giornata mondiale dell'alimentazione è quello di sensibilizzare e creare una cultura alimentare condivisa, che offra tutele tanto alla salute individuale quanto all'ambiente e sia in linea con quell'idea di sviluppo sostenibile che, lungi dall'essere un'opzione new age, si sta sempre più dimostrando l'unica strada percorribile se si ha a cuore il futuro del nostro ecosistema.

Il tema di quest'anno è proprio la sicurezza alimentare, eslpicitato dal titolo programmatico ll clima sta cambiando. Il cibo e l'agricoltura anche:

"La FAO fa appello ai Paesi affinché affrontino l'alimentazione e l'agricoltura nei loro piani d'azione sul clima e investano di più nello sviluppo rurale. Rafforzando la capacità di ripresa dei piccoli agricoltori, possiamo garantire la sicurezza alimentare per la popolazione con sempre maggiori problemi di fame ed anche ridurre le emissioni."

Proseguendo sull'onda di questa riflessione, è quindi d'obbligo considerare l'impatto ambientale del nostro sistema alimentare. Secondo il WWF è proprio questo la causa principale dei cambiamenti climatici: "l'agricoltura globale contribuisce con il 35% delle emissioni di anidride carbonica, metano e protossido di azoto: solo l'allevamento zootecnico contribuisce per il 18% a tutte le emissioni di gas serra. Sono proprio i territori destinati alla produzione di cibo quelli più esposti ai cambiamenti climatici indotti proprio dai gas serra. Inoltre il sistema alimentare mondiale sottrae il 70% dell'utilizzo globale umano di acqua dolce".

In breve, la deforestazione tropicale che cerca spazio per le coltivazioni, il metano prodotto dagli allevamenti di bovini e il protossido di azoto prodotto in terreni eccessivamente fertilizzati sono i maggiori responsabili delle emissioni di gas serra nella catena produttiva alimentare.

Inoltre i dati raccolti dalla Fao sono serviti ai ricercatori dell'International Center for Tropical Agriculture per portare a termine uno studio che denuncia la pericolosità della globalizzazione alimentare, ovvero la standardizzazione della dieta mondiale sul modello di quella Occidentale.

La diffusione di cibi industriali, ricchi di grassi e dannosi per la salute, diventa un fattore di rischio cruciale se esportata in zone sottosviluppate, dove la cultura alimentare locale viene colonizzata e sostituita da cibo spazzatura a basso, bassissimo costo, aprendo le porte alle così dette "malattie del benessere": problemi cardiovascolari, infarti, tumori, diabete, ipertensione, obesità.

Cosa possiamo fare?

Innanzi tutto, riconoscere che il cibo industriale non ha come obiettivo la qualità e quindi la salute, ma il profitto: è eccessivamente ricco di zuccheri, grassi, additivi chimici e carente di vitamine, minerali e oligoelementi indispensabili per l'organismo. Snack, cibi pronti, preparati e sughi - insomma, larghissima parte di ciò; che troviamo in vendita nei grandi supermercati - più che cibo è un'operazione di marketing condotta dai grandi colossi dell'industria.

Vero è che tornare all'alimentazione pre industriale sembra quantomeno complicato, se non utopico, per cui è bene sapere come regolarsi in una situazione paradossale nella quale convivono denutrizione e sovralimentazione epidemiche. Però; c'è una notizia: le abitudini alimentari si possono modificare; diventare consumatori consapevoli è possibile alla luce di alcune semplici constatazioni.

1) i prodotti alimentari industriali hanno successo (anche) perché sono comodi: fanno il paio con una società di lavoratori la cui giornata è impostata sui tempi produttivi. Un pasto già pronto, confezionato e appetibile è tutto ciò; che si possa desiderare in pausa pranzo o di ritorno da otto, dieci ore di lavoro. Esistono diversi tipi di offerta a seconda del potere di acquisto, ed è così che dal produttore al consumatore il cerchio si chiude.

2) scegliere di acquistare direttamente le materie prime, invece di quelle già lavorate dalle grandi multinazionali, è il primo passo per spezzare il circolo vizioso. Magari preferendo i piccoli e medi produttori alle multinazionali.

3) leggere le etichette: l'industria alimentare com'è noto fa larghissimo uso di additivi, coloranti e sostanze chimiche. Possono essere evitate, a patto di riabituare il proprio palato a sapori più semplici e genuini; a patto di semplificare la propria dieta: un tempo si sopravviveva con una scelta di alimenti molto meno vasta e questo accade tutt'ora in molte parti del mondo, dove le malattie del benessere sono sconosciute.

4) preferire prodotti certificati da marchi ecologici (ecolabel) che garantiscano un ciclo produttivo progettato per avere un impatto ambientale minimo.

Infine, va tenuto presente che strutturare i pasti settimanali in base ai nutrienti necessari al proprio fabbisogno, organizzando quindi spesa e pasti in base ad una dieta sana e semplice, basata sulla stagionalità e sulla località, è il modo migliore per mangiare bene, riducendo gli sprechi e l'inquinamento.

E mangiare sano non significa rinunciare al gusto, anzi! Significa sapere che scegliendo come mangiare stiamo scegliendo di pensare noi stessi come organismi viventi all'interno di un ecosistema vivente: il cibo può; tornare ad essere il principale medicamento.

Articolo scritto da: Gloria Avolio