Conosco una bambina molto sveglia e intelligente. Ha una quantità di talenti, è molto brava a scuola e ama vestirsi di blu, lo stesso colore dei suoi bellissimi occhi grandi. Non le piace portare i capelli lunghi e ha le idee molto chiare sull’outfit con cui si sente a proprio agio: maglietta e pantaloni.
I suoi genitori rispettano le sue piccole grandi scelte: la amano. E amano di lei ogni piccolo dettaglio che la rende la meravigliosa persona che è e che diventerà, libera di progettarsi, di scegliere e di scegliersi. Ancora un bocciolo, vista la giovanissima età, ma già provvisto di tutto ciò; che serve.
Eppure, per il senso comune, il blu è un colore da maschietto, le femminucce dovrebbero preferire il rosa. Così come esistono giocattoli per bambini e giocattoli per bambine, comportamenti da maschio e comportamenti da femmina. E così via, proseguendo in una narrazione che assegna a ciascun genere il proprio modello comportamentale rigidamente codificato. Ed emargina il resto come devianza.
Diventa davvero difficile, in questo quadro, che una bambina possa decidere che in fondo, a lei, giocare con le bambole non piace granché: preferisce la bicicletta e le ginocchia sbucciate. E diventa difficile, per un bambino, prendersi la libertà di piangere ed esprimere paura, dolore, mancanza. Così, fin da piccoli, siamo educati ad una grammatica dei sentimenti che esclude ogni sfumatura e ogni complessità.
Ci troviamo inseriti in una codificazione che la dice lunga su cosa la società – questa società – si aspetti da un maschio e su cosa si aspetti da una femmina, secondo una logica binaria che rinchiude i bambini, fin da piccolissimi, all’interno di gabbie comportamentali che lasciano davvero poco spazio all’esplorazione delle proprie inclinazioni spontanee e dei propri talenti.
Emanuela Abbatecola e Luisa Stagi, ricercatrici della Scuola di Scienze Sociali dell’Università di Genova – per la quale hanno svolto uno studio biennale sugli stereotipi di genere all’interno di due scuole per l’infanzia della loro città – scrivono che “Capire dove finisce la natura e dove inizia la cultura è impossibile visto che i condizionamenti partono da subito. E anche se la sociologia non nega l’esistenza di un fattore naturale, la cultura ha un potere enorme.“
E se la cultura ha un potere enorme, è ormai opinione condivisa che per costruire una società fondata sul riconoscimento e sul rispetto delle reciproche differenze, sia indispensabile che scuole e famiglie ripensino i propri modelli educativi. A settembre 2015 il Parlamento Europeo approvava una risoluzione non governativa nella quale “i deputati affermano che le misure sulla parità di genere devono essere applicate a tutti i livelli del sistema di istruzione, includendo la promozione e la formazione degli insegnanti, in modo da porre fine agli stereotipi di genere“.
L’impegno su questo fronte a livello europeo è maggiore nei paesi settentrionali, dove la consapevolezza dei benefici a tutti i livelli di un’educazione libera da stereotipi è arrivata molto prima che da noi, e il dibattito pubblico ha sicuramente avuto toni meno folkloristici. Non si tratta certo di sostituire i vecchi modelli con nuovi modelli, come teme qualcuno. Si tratta di decostruire i primi, lasciando più spazio di espressione alle inclinazioni individuali.
In un paese fortemente legato a modelli patriarcali come l’Italia, rivedere i modelli educativi e decostruire gli stereotipi di genere è tanto complesso quanto importante: se educare senza condizionare è forse impossibile, almeno si abbia la consapevolezza che educare al rispetto di ogni differenza non implica una minaccia alle famiglie o all’identità sessuale delle generazioni future. Anzi!
Da piccoli cittadini educati al rispetto, al riconoscimento della differenza, possiamo aspettarci sicuramente maggiori capacità relazionali e rapporti interpersonali più maturi, fondati sulla valorizzazione dei rispettivi talenti piuttosto che su stereotipi discriminatori e forme di violenza implicite – che troppo spesso diventano fatti di cronaca. Maggiori possibilità di esplorare e affermare i propri talenti, senza idee autolimitanti, significa aprire le porte a persone in grado di portare avanti un fertile dialogo con se stesse.
Non esiste una legge naturale secondo la quale un bambino, a tre anni, debba preferire una pistola giocattolo ad una bambola così come non esiste una legge che stabilisca che una bambina, messa di fronte ad una cucina giocattolo, non possa scegliere di voltarle le spalle e andare a giocare col cane: quella bambina, da grande, vuole fare la veterinaria.
Siamo noi, gli adulti, ad avere una grossa responsabilità. Dobbiamo scegliere: se lasciare liberi i bambini di affermare la loro personalissima voce – che può; dischiudere un universo di stupefacenti possibilità, interrogandoci qualche volta, sorprendendoci quasi sempre – oppure scegliere di sanzionare quella bambina che, fin dall’asilo, voleva vestirsi di blu. Togliendole la Sua voce. La Sua idea di Sé.
E sono certa che il mondo abbia un gran bisogno proprio di quella bambina.