L’8 marzo cade la Festa delle donne. Oppure no…
Facciamo chiarezza, o almeno proviamo a mettere un po’ di ordine nel coacervo di informazioni intorno a questa data per evitare mistificazioni. Poi ognuno può; decidere se e come festeggiare, ma fondamentale sarebbe capire chi e cosa festeggiare.
– La Storia
Dopo più di un secolo di lotte trasversali per i diritti civili portate avanti dalle donne all’interno delle rivoluzioni, dei movimenti abolizionisti, operai e studenteschi, nel 1977 l’ONU invita gli Stati membri ad indire una Giornata dei Diritti delle Donne e della Pace Internazionale “per ricordare il fatto che la sicurezza della pace ed il pieno godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali hanno bisogno della partecipazione attiva, dell’eguaglianza e dello sviluppo delle donne”. In seguito la maggioranza dei Paesi membri sceglie l’8 marzo, che viene proclamato dall’UNESCO Giornata Internazionale della Donne.
Facendo un passo indietro, questa risoluzione dell’ONU ha un’origine ben precisa: nel tentativo di ripensare gli equilibri dopo la Seconda Guerra Mondiale, diventò; chiaro che una società che volesse fondarsi sul riconoscimento dei diritti dell’uomo – quindi assicurare il rispetto della dignità umana e farne un valore fondante – non poteva esimersi dal pensare attentamente di “quale uomo” si intenda quando si parla di diritti umani.
Tutti gli esseri umani, senza discriminazioni, oppure solo i cittadini? O solo i cittadini bianchi e maschi come è stato a lungo dato per scontato, nonostante l’Illuminismo, nonostante le rivoluzioni europee e d’oltre oceano? Il divieto della schiavitù e della discriminazione sessuale – e della discriminazione in generale – sono il nocciolo duro senza il quale è impossibile lasciarci il passato alle spalle.
– L’attualità
Ma veniamo a oggi, veniamo a noi: la Giornata dei Diritti delle Donne e della Pace Internazionale ha subìto interessanti trasformazioni, si è prestata alla commercializzazione e alla politicizzazione ad uso e consumo dei diversi fronti sociali e dei diversi partiti, mutando caratteristiche al mutare dei Paesi. Ma questo non deve fare perdere il punto: l’Italia dell’8 marzo e delle mimose è rimasta indietro di fronte alla necessità di cambiare e alle opportunità che questa comporta.
Essere donna in Italia significa oggi parità di genere sulla carta ma appartenenza di fatto ad una fascia vulnerabile: sono le donne che pagano i costi sociali della crisi dei tradizionali sistemi di welfare.
Significa avere l’opportunità di istruirsi ma, nonostante ci si laurei di più e meglio dei colleghi maschi, 9 milioni di donne non lavorano mentre il 27% lascia il lavoro subito dopo aver avuto il primo figlio.
Significa quindi dover scegliere tra la realizzazione professionale e quella di madre, fatto non banale perché indica che all’interno della coppia è sulla figura di madre che ricadono le responsabilità di accudimento dei figli (e non di rado anche degli anziani) e non su almeno entrambi i genitori, come accade invece nei paesi che hanno superato la concezione patriarcale, e questo la dice lunga su come la nostra società distingua i ruoli – non in base alle attitudini e capacità personali, secondo uno schema elastico, ma a partire da una rigida distinzione del genere sessuale.
La crisi economica degli ultimi otto anni ha ulteriormente oscurato gli scenari, perché a fronte di un apparente aumento dell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro si scopre in realtà che, soprattutto nel mezzogiorno, sul genere femminile ricadono ulteriori problemi: spesso mogli e mamme accettano lavori dequalificanti e sottopagati per risolvere almeno in parte i problemi della famiglia, a fronte di risposte non sempre soddisfacenti da parte delle istituzioni e delle politiche, spesso legate a modelli socio-familiari ormai sorpassati.
– Qualche riflessione
Ed ecco il punto cruciale: di fatto le donne sono il pilastro del welfare e colmano le lacune esistenti nelle politiche sociali destreggiandosi tra vita personale, lavoro e figli. In un periodo di forte crisi istituzionale la coperta si fa corta e lascia scoperti i piedi di chi nella società aveva già prima un ruolo marginale. Ma dobbiamo aspettare che il cambiamento arrivi dall’esterno e che anche per le signore arrivino tempi migliori? Non è forse favorendo l’empowerment delle donne che si può; dare una profonda svolta all’impasse che immobilizza questo Paese e ai disequilibri su scala mondiale?
Secondo qualcuno, c’è più di un interesse legato al mantenimento di discriminazioni: queste garantiscono bacini di forza lavoro a basso costo da una parte e il mantenimento dei privilegi della classe dominante dall’altra. Essere in stato di subordinazione e bisogno permanente significa essere vulnerabili e sfruttabili come forza lavoro sottosalariata o, peggio, nelle forme di schiavitù moderna alle quali l’Occidente è tutt’altro che estraneo.
La discriminazione può; essere tra bianchi e neri, tra ricchi e poveri, tra coloni e colonizzati, tra cittadini e immigrati, ma trasversale a tutte queste discriminazioni rimane costante quella tra maschi e femmine. Vent’anni fa a Pechino aveva luogo la quarta Conferenza mondiale sulle donne dove i Paesi rappresentati si dichiaravano “determinati a far progredire gli obiettivi di uguaglianza, sviluppo e pace per tutte le donne, in qualsiasi luogo e nell’interesse dell’intera umanità“.
La questione è stata riaffrontata l’anno scorso a Milano, in Expo 2015, durante una tre giorni di dibattito presentato da un programma che esordiva con “dal 2008 nel nostro Paese molto poco risulta cambiato“. Eppure, prosegue, nel Word Economic Forum, “La competitività di una nazione, a lungo termine, dipende in modo significativo da come la nazione educa e valorizza le sue donne“. Ancora molto resta da fare per non lasciare queste istanze al dibattito sovranazionale: servono segnali forti, servono politiche mirate per le pari opportunità affinché queste vengano inserite tra gli obiettivi principali delle politiche di sviluppo nazionali. Serve che le donne e gli uomini diventino innanzi tutto “persone“.
Ecco che l’8 marzo assume un peso decisamente diverso alla luce di queste considerazioni. Che le mimose possano essere una dichiarazione di intenti!
Qualche dato: l’Indice di Equità di Genere colloca l’Italia tra i paesi con basso GEI, al pari di Armenia, Madagascar e Viet Nam. Con tre punti sotto la media europea,si trova anche al di sotto della vicina Grecia. Qui il link al reportage di Oxfam.